14 febbraio 2010
Nonostante i divieti, Israele continua la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Il quotidiano Ha’aretz ha pubblicato oggi il resoconto di una seduta della Knesset, durante la quale il vice ministro della Difesa israeliano, Matan Vilnai, ha ammesso la violazione dell’ordine, imposto lo scorso novembre dal premier Benjamin Netanyahu, di congelare per dieci mesi la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania.
Vilnai, rispondendo in Parlamento ad una interrogazione di Haim Oron, deputato del partito di sinistra Meretz, ha confermato 28 violazioni, e diffuso una lista dei luoghi dove esse sono state accertate dal ministero della Difesa, che comprende: Tekoa, Etz Efraim, Revava, Alfe Menashe, Ma'ale Shomron, Psagot, Beit Arye, Emanuel, Kedumim, Barkan, Beitar Illit, Ma'ale Addumim, e Kfar Etzion.
La lista non sarebbe comunque completa, come denuncia il gruppo di attivisti israeliani 'Peace Now’, che cita altri insediamenti - Kokhav HaShahar, Nili, Kiryat Arba, Elazar - dove, pur di aggirare i controlli, i coloni avrebbero lavorato anche durante la notte e il sabato (Shabbat), giorno del riposo per la religione ebraica.
D’altra parte, il 'congelamento’ ordinato dal governo israeliano lo scorso 26 novembre, anche in seguito alle pressioni dell’Amministrazione statunitense, prevede uno stop alla realizzazione di nuovi insediamenti ma consente invece di continuare la costruzione di quelli già avviati, che continuano inesorabilmente a svilupparsi in Cisgiordiania e a Gerusalemme est, dove dovrebbe sorgere il nuovo Stato palestinese.
Nonostante le proteste del governo israeliano, tutte le colonie costruite in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono state dichiarate illegali dal diritto internazionale e hanno provocato, ancora una volta, uno stallo nei negoziati con i palestinesi. La leadership palestinese ha infatti chiarito di non avere alcuna intenzione di tornare al tavolo delle trattative fino a quando Israele non fermerà la costruzione illegale di colonie in Cisgiordania.
* per Osservatorio Iraq
Fonti: Ha’aretz, BBC News, Peace Now
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